Incontriamo Enrico Camanni alle Fonderie Limone di Moncalieri (To), sabato 13 ottobre 2018, in occasione della serata Vertigine, il progetto transfrontaliero del Festival Torino Danza e Corpo Link Cluster che indaga la relazione tra danza e montagna. Il movimento accomuna tutti e mette in gioco uno dei nostri strumenti conoscitivi più straordinari: il corpo. Nel suo ultimo libro, Verso un Nuovo Mattino (Editori Laterza), Camanni delinea l’evoluzione della nostra percezione della montagna e della sua rielaborazione in forma letteraria, dagli anni Settanta – con l’arrampicata di Gian Piero Motti – fino alle recentissime innovazioni dettate dall’uso del digitale e dei social media.
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Qual è stata la tua esperienza del Nuovo Mattino?
Spero di non aver fatto un libro nostalgico di un’epoca “mitica” che, per altro, io non ho vissuto come protagonista: le vie sulle pareti della Valle dell’Orco erano già state liberate. Quello che c’era allora era una grande fantasia e creatività che contrappongo al grande “peccato” di oggi: il conformismo. Senza emettere giudizi di valore, né sostenere che i giovani di allora erano meglio di quelli di oggi, ho voluto raccontare questa storia lunga quarant’anni. L’ho fatto attraverso la metafora dell’arrampicata e ho cercato di lasciare aperti nuovi mattini per il futuro.
Dalla creatività al conformismo. Nel tuo libro parli di una letteratura digitale di montagna che rischia di cadere nella banalità. Quale sarà la scrittura di montagna del domani, dei nuovi mattini che verranno?
Viviamo un paradosso. Non è mai stato facile fare informazione come oggi, eppure non è mai stata così banale. Indubbiamente permane l’informazione valida, ma il fatto che tutti possano scrivere porta ad una grande confusione che rischia di non rendere evidenti i contenuti validi da quelli che non lo sono. L’appiattimento della comunicazione è un pericolo attuale, mentre ai tempi del Nuovo Mattino, nel periodo post sessantottino, la situazione era opposta: l’accesso alla scrittura era elitario, si era molto esigenti e la produzione stessa era difficoltosa. Non esitavano i pc, bisognava avere un editore, una rivista per pubblicare ed un sistema di diffusione che oggi è stato completamente rivoluzionato.
Il conformismo sopravanza ogni altra insidia. È più pericoloso dei fulmini e delle scariche dei sassi. Nell’epoca conforme i dilettanti tendono più o meno la fare le stesse cose alla stessa maniera, senza uscire dai binari del consenso […] Ogni impresa, per grande o piccolissima che sia, è prima edulcorata e poi tritata nella centrifuga della rete. Il marchingegno della comunicazione virtuale forgia racconti incerti e spettatori asuefatti, ed è difficilissimo, anche per i veri esploratori, galleggiare sulla confusione […] Attraverso le magie di internet crediamo di controllare il tempo e possedere la terra, ma scorgiamo solo la brina di superficie […] La letteratura digitale trasmette infiniti brandelli di vite ma trascura l’insieme dei racconti. (E. Camanni, Verso un nuovo mattino, Laterza 2018, p. 206)
Forse insieme ai mezzi cambiano anche i fini della scrittura. È ancora viva la scrittura di montagna come rielaborazione dell’esperienza? Oppure oggi si scrive per altri scopi?
Sulla scrittura è bene ricordare che, all’interno del Nuovo Mattino, le figure più attive sono state Gian Piero Motti, il filosofo del movimento, ed Andrea Gobetti, una penna straordinariamente feconda che ha dato vita ad Una frontiera da immaginare, il testo che racchiude l’anima di quegli anni. Insomma, il Nuovo Mattino è anche un po’ un’invenzione letteraria: non lo dico con dispregio, anzi quel che facciamo dovrebbe tradursi in narrazione e, se non è così, c’è qualcosa che non funziona. Oggi nell’ambito della letteratura alpinistica vedo poco slancio, mentre assistiamo ad una grande esplosione della narrativa di montagna, segnalata dal Premio Strega assegnato a Paolo Cognetti. In libreria troviamo una grande quantità di titoli di montagna, come mai avvenuto in passato. È il segnale di un rinato sentimento per la montagna che passa attraverso il filtro dell’arte. Anche una manifestazione come Vertigine, che ricorre al mezzo espressivo della danza, contribuisce ad aprire la montagna al di là del suo ambito specialistico. È un processo che ingaggia la creatività e le idee e che non può che essere positivo. Il Nuovo Mattino ha contribuito a demolire un’immagine stantia della montagna, legata alle sovrastrutture ideologiche, alla retorica ed alle istituzioni. Oggi si sta rielaborando questa vitalità intellettuale e creativa.
Ogni epoca ha i suoi linguaggi. Oggi si parla di “Speed Mountaineering“. Andremo sempre più veloci?
Mi interessa la dimensione della corsa a livello sociale. Sembra che tutti noi abbiamo un surplus di energie da scaricare attraverso la corsa. Una volta, al contrario, c’era troppa fatica da smaltire, le forze erano da immagazzinare e non da disperdere. Evidentemente la realtà di oggi ci rende statici, ma bisogna guardare anche alle valenze collettive della corsa ed ai mutamenti che ha subito negli anni.
Qualcuno continua a domandarmi quale sarà l’alpinismo di domani e io continuo a non saper rispondere […] L’unica tendenza inequivocabile è la corsa. Il mondo si è messo a correre, e non è un’immagine figurata […] Corrono tutti, come fossero inseguiti. Si corre in città e in natura, sui fiumi e nei deserti, in riva al mare e a quattromila metri. La corsa è la nuova religione della società occidentale (E. Camanni, Verso un nuovo mattino, Laterza 2018, p. 210)
Quando ero ragazzo nessuno correva in montagna e, se v’era, veniva considerato un “pazzo”: oggi la frequentazione della montagna attraverso la corsa è pienamente entrata nell’ordinarietà. Non sono moralista, né intendo emettere giudizi. Non vado cioè a sentenziare, sostenendo che chi corre non percepisca l’ambiente, veda meno, pensi meno. Quello che invece centrale è una rinnovata scoperta della nostra relazione con il corpo, in un periodo storico dove tutto è digitale: ognuno lo fa a modo suo e la corsa è sicuramente uno dei modi più in crescita.
Ritrovo questo ritorno alla sensorialità nella conferenza che precede lo spettacolo La Spire. Sembra quasi che si sia avverato il peggior incubo della modernità: l’uomo si è asservito ai suoi stessi strumenti. Mezzi di trasporto e di comunicazione sono divenuti delle sorte di protesi percettive: promettevano di ampliare i nostri orizzonti ed invece ci hanno limitati. Occhio: non nego che le possibilità di espansione, espressione, diffusione e produzione siano aumentate. Ma, come sottolinea Camanni nel suo ultimo libro, mi chiedo dove ci conducano. Spesso portano ad un’esplorazione superficiale di prospettive già determinate. A cosa richiama la montagna e l’esperienza concreta, tattile, immersiva? Alla creatività, alla volontà di vedere e capire, di scalfire la roccia (ma anche i pregiudizi, i pensieri stantii, le convenzioni): è un invito gioioso alla “visione” secondo l’accezione di Doug Robinson che quasi cinquant’anni fa la definiva come la capacità di percepire con grande intensità gli oggetti e le azioni dell’esperienza ordinaria, di andare oltre, di coglierne le meraviglie e i misteri, le forme, gli umori ed i meccanismi (The climber as a visionary in “Ascent”, maggio 1969).
Cosa ci dicono le artiste sospese lassù, a volteggiare roteanti sulle esili strutture spiraliformi dello spettacolo? Cosa ci lascia la lettura di Verso un nuovo mattino? Seppur in prospettive differenti, entrambi portano a riflettere sul corpo in movimento e sul gesto che, non necessariamente, dev’essere di tipo prestazionale. Forse quello che dovremmo ricercare non è l’exploit – il risultato eccezionale che spezza la routine – ma la verve, la vivacità creativa che è in grado di rendere l’esistenza quotidiana un’avventura di ricerca e di crescita. (In chiusura penso all’equiliBRIO, scritto proprio di così, come un’inno esuberante, maiuscolo, all’immaginazione ed alla fantasia!).