L’ edizione del Blogger Contest 2019 di Altitudini è dedicata a “La grande estinzione” e questa storia è il mio contributo all’invito ad “immaginare come forma di resistenza, come lotta creativa, verso un piano collettivo capace di salvare tutti” (Matteo Meschiari).
PROGETTO GALABERNA di Federico Amanzio
La cima del monte Chaberton venne spianata. Abbassata, si dice, di una decina di metri. Ne parla anche Mario Rigoni Stern. In Vecchia America lo zio Barba si ritrova a più di tremila metri “a scavare mulattiere e strade sui fianchi di quell’alta montagna dove nevica anche d’estate”. Oggi si scava ancora, ma non sulle vette: più giù a fondovalle un tunnel s’inabissa nel sottosuolo, erode le profondità rocciose, prosciuga le sorgenti ed erutta, come un furioso vulcano, milioni di metri cubi di terra. All’inizio la questione dei detriti fu un problema. Poi arrivò il progetto Galaberna.
C’è chi fu scettico all’inizio, ma già la fase di test, quella dello snow farming fu un successo. A primavera, le ruspe accumularono i residui di neve compattandoli sotto strati di trucioli isolanti, a loro volta protetti da i da enormi teli geotermici. Così, impacchettata, la neve giunse alla stagione successiva, pronta per essere stesa sulla piste. Ed ecco l’intuizione: perché accontentarsi di stoccaggi così limitati? Perché non preservare la neve di un intero versante direttamente sui pendii?
L’idea fu presentata all’apertura della stagione sciistica in una sala gremita: il tintinnio dei calici e le risate di rito vennero interrotte da una presentazione che ammutolì il pubblico. Sullo schermo correvano veloci le immagini: i primi skilift, lo slittone in legno, le pubblicità, le gare, i vip, gli anni sessanta ed il declino, l’innalzamento della temperatura media della valle, una linea che sale vertiginosa in rosso. Poi una scritta: AGIRE SUL SURRISCALDAMENTO. E qui, qualcuno dei presenti, s’indispettì pensando che il tutto si risolvesse nella solita tiritera ambientalista: “è tutta colpa nostra, dobbiamo cambiare le nostre abitudini, bla bla bla”.
L’incrocio di sguardi beffardi non durò che un attimo. Giusto il tempo che sul monitor apparisse il progetto Galaberna: una montagna, elevata artificialmente di centosette metri, una struttura simbiotica col tunnel, giù a valle, in grado di smaltirne i detriti. Una grande opera, una grande ombra. Lunga, oscura, fredda. Un manto nero per mantenere la coltre bianca. A video seguivano le immagini con i dati, i grafici e le statistiche su quell’immane proiezione in grado di abbassare la temperatura di anche tre gradi. In chiusura una sola parola a caratteri squadrati: FUTURO.
Esplosero gli applausi. Il futuro è lavoro, appalti, assunzioni, cantieri, impianti. Solo ad un giovane che tutti ritenevano un po’ bizzarro, Galaberna parve un’assurdità. Gli sembrò che qualcosa non quadrasse nel cavare terra a valle per portarla a monte. Nell’addensare l’aria pura della montagna con i gas di scarico. Nell’ostinarsi a preservare la neve per il solo scopo dell’utilizzarla per svago. Nell’accanirsi a garantire il divertimento anche quando non c’è più nulla da ridere.
I vecchi gli avevano insegnato l’importanza del velo bianco che infarina i pascoli, rinvigorisce le sorgenti ed ovatta i rumori rendendo i cuori degli uomini più lieti. Questo era il suo inverno. Fatto di rinunce. Aveva scelto il borgo, all’indritto, il lato assolato della valle. Sorrise a pensare che l’inverso sarebbe stato ancor più buio: cosa avrebbero detto i vecchi? Nel vedere che l’uomo riesce a spostare le montagne senza illuminare il suo futuro?